lunedì 11 gennaio 2016

La solitudine dei medici nella cura del malato terminale


Con l'avv.Maurizio di Masi, autore di una importantissima pubblicazione sul Fine Vita edito Ediesse, queste riflessioni a cui seguiranno altri approfondimenti.





Il Medico 


E' passato senza grande clamore sulla stampa italiana il lavoro sul Fine vita svolto nell’arco del 2014 dal gruppo di Bioetica della Siaarti  (Società di anestesia analgesia rianimazione e terapia intensiva).
A temine di una serie di incontri è stato approvato un apprezzabile documento, condiviso da importanti società mediche, rappresentanti dei medici che in primis sono coinvolti nel percorso di cura dei malati terminali quali
- IRC Italia Resuscitation Council
- ANMCO Associazione nazionale medici cardiologi ospedalieri
- SIMEU Società italiana di  Emergenza Urgenza
- SICP Società delle Cure Palliative
- SIN Società Italiana Nefrologi
- ANIARTI Associazione degli infermieri di aria critica
- SIMG Sicietà di Medicina Generale
- AIPO Società dei pneumologi
Il documento elaborato non emana raccomandazioni e nemmeno delle Linee Guida, ma semplicemente un documento di indirizzo culturale che esprime il punto di vista di chi ogni giorno è coinvolto con grande potere decisionale nel percorso di cura dei malati terminali.

Se non aver elaborato linee guida appare una debolezza del documento, sotto altra prospettiva questo testo ben mostra la complessità del tema e di una qualsiasi normativa sul fine vita, complessità che  va persino oltre il muro eretto dalla politica nel rifiuto di discutere le proposte di legge in sede istituzionale. Un parte della colpe, forse, può essere attribuita agli stessi medici, molti dei quali ignorano anche l’esistenza di questo importante documento, che dà voce ad ansie ed istanze di quanti ogni giorno toccano con mano le problematiche, concrete, del fine vita.
Eppure basterebbe che ogni medico leggesse questa "opinione"  e ne comprendesse i contenuti per far sì che si evitino quantomeno i trattamenti sanitari sproporzionati, che di fatto tutt’oggi conducono
all’ accanimento terapeutico. Non Solo! Il documento mette al centro delle preoccupazioni il paziente, cui è garantito che le cure possano essere condivise anticipatamente all’interno di un piano di cura non inficiato da "esigenze di efficienza e razionalizzazione della spesa sanitaria".
Nello specifico, poi, vengono dati i criteri in un percorso anamnestico clinico-assistenziale affinché si possa giungere ad una valutazione globale della malattia ed alla definizione di un conseguente percorso di cura proporzionato, inquadrando il paziente nella fase terminale, "End Stage", per potergli comunque garantire il principio della autonomia decisionale inserito nel suo contesto di vita. Vale a dire per riconoscergli il suo diritto costituzionale di rifiutare le terapie.
Non si trascura, peraltro, che spesso il medico che accompagna il malato terminale lavora in  una imbarazzante solitudine, poiché  volto a fornire competenze cliniche ed etico-giuridiche al fine di promuovere un accompagnamento alla terminalità di questi pazienti  "in assenza di alcun supporto legislativo che consenta di affrontarlo in tutta la sua ampiezza”.
Nel documento, ancora, si parla a buona ragione di "clausola di coscienza" e non “obiezione", in quanto, se all'interno del percorso di cura il malato esprime la volontà della desinenza terapeutica, il sanitario non può sapere a priori se tale richiesta è contraria ai suoi dettami di coscienza. In sostanza si riconosce il diritto del personale sanitario di sollevare la clausola di coscienza nel caso concreto, senza che ciò pregiudichi i diritti del malato.
Ad oggi, nonostante appelli e grandi promesse, il Parlamento non ha dato alcuna risposta ed espresso una seria volontà di legiferare in merito. La società civile, anche mediante l’operato certosino di importanti associazioni quali la “Luca Coscioni”, chiede a gran voce una legge sul fine vita. Nel silenzio della legge e del dibattito politico, invero, le problematiche del fine vita esistono e si fanno sempre più stringenti anche per il personale sanitario.
Molto spesso il dibattito pubblico sulla fine della vita è “inquinato” dall’utilizzo (a volte strumentale) del termine eutanasia, termine che rinvia a una costellazione di situazioni assai diverse ma che, giuridicamente, appare poco utile. La vita umana, infatti, è penalmente tutelata dall’art. 575 c.p., che punisce chiunque «cagioni la morte di un uomo», dall’art. 579 c.p. che disciplina l’omicidio del consenziente e dall’art. 580 c.p. che punisce chiunque «determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione». Dal punto di vista legislativo, quindi, non si fa alcuna differenza tra assassinio e morte medicalmente assistita. Ciò implica che, ad oggi, il sanitario che dovesse assecondare la richiesta, ponderata e lucida, di un malato terminale di porre fine alla propria esistenza va incontro a sanzioni penali assai gravi.
L’altro lato della medaglia, però, è costituito dall’autodeterminazione e dalla dignità del morente. Oggi, purtroppo, queste non paiono garantiti a cittadine e cittadini, soprattutto nella fase terminale della propria esistenza, come i noti casi di Piergiorgio Welby, di Eluana Englaro e, ora, di Max Fanelli mostrano. Nel dibattito pubblico, anche in vista di una buona legge sul fine vita,occorre avere l’onesta intellettuale di riconoscere che, in casi eccezionali quali sono quelli legati a malattie degenerative e mutatis mutandis nel caso di stato vegetativo, la persona interessata possa disporre del proprio corpo e della propria vita. Questo principio appare ormai essersi ben consolidato nella giurisprudenza, tanto della Corte di cassazione quanto del Consiglio di Stato, il quale ultimo, pronunciandosi in merito al caso Englaro nel 2014, sottolinea assai laicamente come nessuna visione della malattia e della salute, nessuna concezione della sofferenza e, correlativamente, della cura possa essere contrapposta o, addirittura, sovrapposta dallo Stato o dall’amministrazione sanitaria o da qualsivoglia altro soggetto pubblico o privato alla cognizione che della propria sofferenza e, correlativamente, della propria cura ha il singolo malato.
Assistiamo, in definitiva, ad un paradosso che, al di là di qualsiasi alleanza terapeutica, vede contrapporsi – tutt’oggi – malati terminali e personale sanitario: il morente, infatti, si vede riconosciuto il diritto (garantito dall’art. 32 della Costituzione) di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario, anche se la sospensione dello stesso conduce a morte certa, ma non può chiedere a nessun medico di attivarsi per accompagnarlo verso una morte dignitosa, date le severe sanzioni penali cui incorrerebbe lo stesso sanitario. Cercare, insieme, una soluzione è civilmente doveroso.

Dr.ssa Mercedes Lanzilotta
Avv.   Maurizio Di Masi





http://www.fondazioneluvi.org/centrouniversitario/wp-content/uploads/2014/01/INSUFFICIENZE_CRONICHE_END-STAGE_FINAL.pdf