martedì 12 novembre 2013

Il Labirinto - Appunti per un percorso nudo. La 194 al SUD.



 Abortire in una città del Sud, il percorso di Emma.
                                                             


Sono una giovane donna di 28 anni, ed un giovanissimo medico in formazione, e come tale non posso non interrogarmi sull’obiezione di coscienza. In questo percorso di vita e professionale, mi è capitato di trovarmi, a proposito di Legge 194, “dall’altre parte”, senza camice: i primi di agosto 2013 mi sono sottoposta ad una interruzione di gravidanza, ed ho scelto la RU486.
Dopo non poche tribolazioni.
Inutile dire che a 28 anni un figlio ci pensi a tenerlo, e molto concretamente.
I motivi che hanno portato me e il mio compagno a questa scelta sono molti, ma per quanto questa scelta sia stata ponderata, anche drammaticamente vissuta da parte di entrambi, ciò che più ci ha feriti, ciò che più sta pesando nella elaborazione necessaria di questo evento, è stato il percorso, le vicende che abbiamo dovuto affrontare sul piano pratico. “e 'l modo ancor m'offende”, viene da dire.
Alcune considerazioni preliminari: io sono una donna in una posizione assolutamente privilegiata. Sono un medico, mi sto specializzando, cioè lavoro, in uno degli ospedali più grandi ed organizzati di ……., ho un compagno stabile e provengo da una famiglia benestante. Ovvero ho una buona base sociale, economica e culturale di provenienza. Tutte cose che sanciscono, appunto, il mio vantaggio. O quantomeno presunto tale.

Accertata la gravidanza, mi sono rivolta alla mia ginecologa: 35 anni, laurea e specializzazione nel mio stesso Ateneo, esperienza all’estero, rampante ed aggiornata, non mi ha sostenuta in questo percorso. Comunicatale la mia decisione di interrompere la gravidanza, mi ha detto di essere obiettrice e di non poter dunque in nessun modo, in coscienza, sostenermi in una decisione di questo genere. Soprattutto come donna, solo dopo come medico. Il nostro rapporto medico-paziente si è interrotto lì, come è facile immaginare.
Mi sono dunque ritrovata nella condizione di dovermi orientare da sola.
Ho lambito le sponde della Ginecologia ed Ostetricia del Policlinico ……….., dove mi sono resa conto che trovare un medico non obiettore è cosa complicata quanto cercare il famoso ago nel ben noto pagliaio: per giunta, i medici non obiettori vengono detti e presentati apertamente come "gli abortisti". Questo tanto per far cogliere l'atmosfera. Non ho indagato se tutti gli obiettori avessero ogni anno riconfermato il certificato d'obiezione, ma non credo di dover spiegare oltre il mio perplesso disappunto difronte ad una situazione del genere.
Mi rivolgo dunque contestualmente a due fronti: il Consultorio della mia Circoscrizione, e l'Ospedale ……….., centro di coordinamento per la regione………. per la 194.
Al Consultorio, dopo un’attesa di più di un’ora (sono arrivata alle 8 del mattino, come da cartello con orari di ricevimento) su una poltrona sfondata, accedo alla visita ginecologica, fortunatamente celere perché - per quel famoso vantaggio di cui sopra- avevo portato in visione due dosaggi bhcg ed ecografia con tutti i parametri fetali. La ginecologa dopo il colloquio mi invia in segreteria dove mi prendono un appuntamento con lo psicologo del centro. E a quel punto c’è stata una scena degna della migliore commedia all’italiana! Cito testualmente:"se poi lo psicologo non c'è, il colloquio lo fai con me." La Signora XX, è la segretaria del consultorio, dotata evidentemente di laurea in Psicologia presa per meriti sul campo. La solerte psicosegretaria, dopo una serie infinita di telefonate al centralino dell’Ospedale A , si prende i miei recapiti e, comprendendo la mia premura nel voler accorciare il più possibile i tempi, mi dice che sperava di riuscire a ricontattarmi in giornata per darmi un appuntamento; finalmente, nel pomeriggio, apprendo che ho un appuntamento per IVG all’Ospedale A il 13 agosto, ovvero allo scadere della 7 settimana. Di RU486, nemmeno a parlarne.
Fin qui, tutto sommato, psicologhe improvvisate a parte e qualche dettaglio sulla varia umanità che girava nel consultorio, tutto ancora accettabile.
Mi reco ……….: lo scenario è apocalittico.
Già il giorno precedente, raggiunto telefonicamente il centro di coordinamento, mi dicono di presentarmi molto presto:"Presto quanto?"-"Eh signorì, le 5, le 6...veda 'n po' lei...noi aprimo pe'le 7.30...". Bene. Alle 7 sono in ospedale. Trovo il padiglione di Ginecologia ed Ostetricia, entro ed un infermiere sorridente mi accoglie premuroso. Buon segno.
Gli dico che cerco il centro per le IVG.
Il sorriso sparisce:"Ah no, per quello deve uscire fuori e scendere giù". Senza sorriso e senza premura, stavolta.
E quello "scendere giù" ancora non avevo idea che fosse una sorta di discesa agli inferi.
Infatti sulla destra, c'è una scala di ferro che fa un angolo di 90' e ripidamente porta in un sottoscala all'aperto.
Muri rovinati, calcinacci, neanche una sedia, nemmeno un tetto dove ripararsi dal sole che comincia a farsi sentire anche lì sotto.
Sono le 7.00, siamo già una decina. Per lo più trentenni, italiane, slave, un paio di nordafricane.
Alle 7.30 siamo una trentina.
E' estate, non può piovere, ma tra un'ora a ..... l'asfalto sarà già rovente e l'aria irrespirabile. Penso che sono fortunata a non essere lì a dicembre, che invece piove fa freddo e l'asfalto non si asciuga mai.
Alle 8, finalmente, le infermiere aprono la porta in vetro e metallo: siamo tutte in fila dietro un gabbiotto, una dietro l'altra, attaccate, ed ognuna può ascoltare i racconti delle altre.
Le donne non italiane sono aumentate, e tra gli infermieri ci deve essere la falsa credenza che urlando al paziente di lingua straniera, questo possa subire una sorta di epifania linguistica e comprendere l'oscuro messaggio che si sta cercando di comunicare: ”MA TU HAI PORTATO DOCUMENTO? NO DOCUMENTO NO OPERAZIONE!! NO NO NO!".
Sono intervenuta due volte, in francese e in inglese, perché due ragazze erano in lacrime. Una delle due, marocchina, mi ha poi raccontato in uno straccio di intimità, che abortiva il figlio di una violenza non denunciata.
Finalmente è il mio turno, mi danno un quadrato di legno giallo con un numero scritto a penna e mi siedo con tutte le altre lì, nello stesso stanzone dove si sta in fila al gabbiotto.
Il colore del cartellino che ci viene consegnato ci identifica per diverso destino: c’è chi è in prima visita, chi si sottopone all'interruzione quel giorno stesso, chi è lì per la visita di controllo. Davanti a noi 4 stanze, sulla destra un corridoio che porta, ci sembra, al blocco operatorio.
Sedie rotte, sudiciume, muri sporchi, illuminazione scarsa, personale ovviamente adeguato a questo standard di ambiente lavorativo.
Mi chiamano da dietro una porta socchiusa. Entro e mi presento subito come una collega: si prendono copia degli esami ematochimici e dell’ecografia che avevo portato e scorrendo il calendario mi fissano direttamente l’appuntamento per l'interruzione chirurgica al 10 agosto. Ma devo tornare "dopodomani", per ripetere analisi ed ecografia e firmare le carte.
A quel punto, chiedo la RU486.
L'infermiera, dopo avermi detto che in quella struttura ospedaliera solo 3 medici su 31 non sono obiettori, mi dice che loro lì ne somministrano solo per 7 al mese (è mai possibile?!) e che per agosto sono già tutte occupate, forse però una ragazza rinuncia: “Torna dopodomani che ti faccio sapere".
Dopodomani torno e mi dicono che il posto non s'è liberato, però c'è una possibilità: il Dottor B.
All'Ospedale di ,,,,,,,. . A 130 km dalla mia città.
Sono sempre più stupefatta.
Su tutto il territorio di questa immensa area metropolitana, non c'è un ospedale in grado di fornire questo servizio, sancito per legge!!!
Devo andare a ……..!!
Sempre perché dotata di quella posizione di vantaggio di cui sopra (che in questo caso significa anche avere una macchina e un'amica con una casa a 90 km dall'ospedale, disposta ad ospitarmi per un paio di notti), telefono a quest’ultimo Ospedale dove, senza bisogno di presentarmi come medico, mi danno un appuntamento rapidissimo quella stessa settimana, e dove mi sono trovata benissimo, sia sotto il profilo professionale che sotto quello umano.
Questa mia esperienza mi fa ragionare su diversi aspetti, sia medici che sociali, o sociologici se preferisci. Riflessioni dolorose, in ogni caso. Ho l'impressione che si stia tornando indietro di anni su questi argomenti di civiltà, su questi ormai (speravo) assodati diritti umani. Di educazione sessuale nelle scuole nemmeno l'ombra, i consultori sono usati per nemmeno un terzo delle loro potenzialità, il bigottismo da un lato e la medicina difensiva dall'altra ci mettono davanti una situazione dove siamo sempre più lontani da quello medicina sociale che deve continuare a marciare, a mio parere, sotto l'egida della laicità, e del diritto alla salute, a favore del malato e al fianco dei colleghi, non contro o difendendosi da queste figure, una volta amiche ora solo degne di sospetto.
Ricevo e volentieri pubblico.
L'affossamento della 194 ha molti volti.
Emma è una mia amica, mi ha scritto poche ore fa e dato il consenso alla pubblicazione del suo percorso. Spero serva a ccomprendere quanto la 194 è sempre più fragile.

domenica 10 novembre 2013

Da domani forse obietterò anch'io

Da domani forse obietterò anch' io.

Dal 1995 lavoro in Lombardia e sono un’anestesista non obiettora. Prima lavoravo in Germania, era un Ospedale confessionale e nessuno mi pose la domanda di obiezione, non si facevano  interruzioni di gravidanza e basta. Poi all’Ospedale di Garbagnate: mi sono rimaste impresse le battutine dei miei colleghi obiettori su “Erode” rivolte a noi non obiettori. Ma ci passavo sopra. Sono sempre stata una militante assoluta.
La lotta per la 194 è stata una pietra miliare della mia vita politica e della generazione a cui appartengo. “Non si torna indietro”: articolo primo della mia militanza.
In tutti questi anni non mi è particolarmente pesata la non obiezione, perché ne ho sempre avvertito la necessità sociale, pur costringendomi a una parte del lavoro che non mi piace.

Le donne che si rivolgono alla 194 sono cambiate.
20 anni fa erano tantissime e quasi tutte italiane: studentesse universitarie, casalinghe disperate, situazioni amorose difficili, donne metropolitane al quarto figlio in 70 metri quadri, giovani coppie non ancora stabilizzate, concepimenti per rottura di condom, figli di violenza sessuale e incesti.
In questi anni le donne sono cambiate.
Spesso hanno 13-14 anni, arrivano accompagnate dai genitori o con la lettera di accompagnamento del giudice tutelare, ragazzine sperdute con lo sguardo già spento, con mamme premurose e ansiose che passino quelle ore. Sono donne straniere: moltissime musulmane con altissimo numero di interruzioni. Albanesi, marocchine, ecuadoriane, peruviane. Moltissime badanti. Anche donne rom: ma quelle c’erano anche negli anni 90, non sono cresciute in termini percentuali. Prostitute. Non rare le gravidanze frutto di violenza e negazione dell’amore.
Meno frequenti le italiane tra i 25 e 40 anni: a quella età i figli si vogliono e c’è una maggiore stabilità economica. Le donne italiane abortiscono spesso prima e dopo questa età, quando la precarietà economica le colpisce di più. Tante hanno perso il lavoro, tante raccontano situazioni disperate con il marito in cassa integrazione.

In questi 18 anni ho sempre lavorato con la certezza della necessità di quello che facevo, e del dovere di non obiettare, pur non piacendomi assolutamente farlo. Sapevo di avere con me tutto il movimento delle donne.
La recente delibera di Firenze mi ha fatto sbattere la faccia contro una realtà amara.
Le donne non sono più unite sulla necessità della difesa della 194 da tutti gli attacchi.
Molte pensano che chiedere a una donna se vuole dare sepoltura all’embrione che sta abortendo sia una cosa NORMALE. E che tra i cimiteri dei feti e la 194 non vi sia connessione.
Sarebbe quindi normale un medico che chiede alla donna se vuole fare il funerale al feto che sta abortendo. La giustificazione è quella del superamento del dolore!
Sembra un film dell’orrore: embrioni amati e rifiutati dalle donne, come le migliori Madri di  Nicky Saint Phalle, quelle grasse e colorate che dopo averli partoriti se li mangiano. E poi altri embrioni non amati, non riconosciuti e buttati nei rifiuti speciali. Embrioni di serie B, figli dell’amore malato.
A questo ci ha portato l’estremismo cattolico ed è da questo che ci dobbiamo difendere, da cui le donne si devono difendere. Vedo invece molte che difendono aprioristicamente i cimiteri dei mai nati: è quanto di più triste mi sia capitato nella storia della mia militanza civile.
Per 18 anni, care donne schierate e no, ho sostenuto concretamente la legge 194.
Ora cavatevela da voi.
Io ho dato.