Abortire in una città del Sud, il percorso di Emma.
Sono una giovane donna di 28
anni, ed un giovanissimo medico in formazione, e come tale non posso non
interrogarmi sull’obiezione di coscienza. In questo percorso di vita e
professionale, mi è capitato di trovarmi, a proposito di Legge 194, “dall’altre
parte”, senza camice: i primi di agosto 2013 mi sono sottoposta ad una
interruzione di gravidanza, ed ho scelto la RU486.
Dopo non poche tribolazioni.
Inutile dire che a 28 anni un
figlio ci pensi a tenerlo, e molto concretamente.
I motivi che
hanno portato me e il mio compagno a questa scelta sono molti, ma per quanto
questa scelta sia stata ponderata, anche drammaticamente vissuta da parte di
entrambi, ciò che più ci ha feriti, ciò che più sta pesando nella elaborazione
necessaria di questo evento, è stato il percorso, le vicende che abbiamo dovuto
affrontare sul piano pratico. “e 'l modo ancor
m'offende”, viene da dire.
Alcune considerazioni
preliminari: io sono una donna in una posizione assolutamente privilegiata.
Sono un medico, mi sto specializzando, cioè lavoro, in uno degli ospedali più
grandi ed organizzati di ……., ho un compagno stabile e provengo da una famiglia
benestante. Ovvero ho una buona base sociale, economica e culturale di
provenienza. Tutte cose che sanciscono, appunto, il mio vantaggio. O quantomeno
presunto tale.
Accertata la gravidanza, mi
sono rivolta alla mia ginecologa: 35 anni, laurea e specializzazione nel mio
stesso Ateneo, esperienza all’estero, rampante ed aggiornata, non mi ha
sostenuta in questo percorso. Comunicatale la mia decisione di interrompere la
gravidanza, mi ha detto di essere obiettrice e di non poter dunque in nessun
modo, in coscienza, sostenermi in una decisione di questo genere. Soprattutto
come donna, solo dopo come medico. Il nostro rapporto medico-paziente si è
interrotto lì, come è facile immaginare.
Mi sono dunque ritrovata nella
condizione di dovermi orientare da sola.
Ho lambito le sponde della
Ginecologia ed Ostetricia del Policlinico ……….., dove mi sono resa conto che
trovare un medico non obiettore è cosa complicata quanto cercare il famoso ago
nel ben noto pagliaio: per giunta, i medici non obiettori vengono detti e
presentati apertamente come "gli abortisti". Questo tanto per far
cogliere l'atmosfera. Non ho indagato se tutti gli obiettori avessero ogni anno
riconfermato il certificato d'obiezione, ma non credo di dover spiegare oltre
il mio perplesso disappunto difronte ad una situazione del genere.
Mi rivolgo dunque
contestualmente a due fronti: il Consultorio della mia Circoscrizione, e
l'Ospedale ……….., centro di coordinamento per la regione………. per la 194.
Al Consultorio, dopo un’attesa
di più di un’ora (sono arrivata alle 8 del mattino, come da cartello con orari
di ricevimento) su una poltrona sfondata, accedo alla visita ginecologica,
fortunatamente celere perché - per quel famoso vantaggio di cui sopra- avevo
portato in visione due dosaggi bhcg ed ecografia con tutti i parametri fetali.
La ginecologa dopo il colloquio mi invia in segreteria dove mi prendono un
appuntamento con lo psicologo del centro. E a quel punto c’è stata una scena
degna della migliore commedia all’italiana! Cito testualmente:"se poi lo
psicologo non c'è, il colloquio lo fai con me." La Signora XX, è la
segretaria del consultorio, dotata evidentemente di laurea in Psicologia presa
per meriti sul campo. La solerte psicosegretaria, dopo una serie infinita di
telefonate al centralino dell’Ospedale A , si prende i miei recapiti e,
comprendendo la mia premura nel voler accorciare il più possibile i tempi, mi
dice che sperava di riuscire a ricontattarmi in giornata per darmi un
appuntamento; finalmente, nel pomeriggio, apprendo che ho un appuntamento per
IVG all’Ospedale A il 13 agosto, ovvero allo scadere della 7 settimana. Di
RU486, nemmeno a parlarne.
Fin qui, tutto sommato,
psicologhe improvvisate a parte e qualche dettaglio sulla varia umanità che
girava nel consultorio, tutto ancora accettabile.
Mi reco ……….: lo scenario è
apocalittico.
Già il giorno precedente,
raggiunto telefonicamente il centro di coordinamento, mi dicono di presentarmi
molto presto:"Presto quanto?"-"Eh signorì, le 5, le 6...veda 'n
po' lei...noi aprimo pe'le 7.30...". Bene. Alle 7 sono in ospedale. Trovo
il padiglione di Ginecologia ed Ostetricia, entro ed un infermiere sorridente
mi accoglie premuroso. Buon segno.
Gli dico che cerco il centro
per le IVG.
Il sorriso sparisce:"Ah
no, per quello deve uscire fuori e scendere giù". Senza sorriso e senza
premura, stavolta.
E quello "scendere
giù" ancora non avevo idea che fosse una sorta di discesa agli inferi.
Infatti sulla destra, c'è una
scala di ferro che fa un angolo di 90' e ripidamente porta in un sottoscala
all'aperto.
Muri rovinati, calcinacci,
neanche una sedia, nemmeno un tetto dove ripararsi dal sole che comincia a
farsi sentire anche lì sotto.
Sono le 7.00, siamo già una
decina. Per lo più trentenni, italiane, slave, un paio di nordafricane.
Alle 7.30 siamo una trentina.
E' estate, non può piovere, ma
tra un'ora a ..... l'asfalto sarà già rovente e l'aria irrespirabile. Penso che
sono fortunata a non essere lì a dicembre, che invece piove fa freddo e
l'asfalto non si asciuga mai.
Alle 8, finalmente, le
infermiere aprono la porta in vetro e metallo: siamo tutte in fila dietro un
gabbiotto, una dietro l'altra, attaccate, ed ognuna può ascoltare i racconti
delle altre.
Le donne non italiane sono
aumentate, e tra gli infermieri ci deve essere la falsa credenza che urlando al
paziente di lingua straniera, questo possa subire una sorta di epifania
linguistica e comprendere l'oscuro messaggio che si sta cercando di comunicare:
”MA TU HAI PORTATO DOCUMENTO? NO DOCUMENTO NO OPERAZIONE!! NO NO NO!".
Sono intervenuta due volte, in
francese e in inglese, perché due ragazze erano in lacrime. Una delle due,
marocchina, mi ha poi raccontato in uno straccio di intimità, che abortiva il
figlio di una violenza non denunciata.
Finalmente è il mio turno, mi
danno un quadrato di legno giallo con un numero scritto a penna e mi siedo con
tutte le altre lì, nello stesso stanzone dove si sta in fila al gabbiotto.
Il colore del cartellino che ci
viene consegnato ci identifica per diverso destino: c’è chi è in prima visita,
chi si sottopone all'interruzione quel giorno stesso, chi è lì per la visita di
controllo. Davanti a noi 4 stanze, sulla destra un corridoio che porta, ci
sembra, al blocco operatorio.
Sedie rotte, sudiciume, muri
sporchi, illuminazione scarsa, personale ovviamente adeguato a questo standard
di ambiente lavorativo.
Mi chiamano da dietro una porta
socchiusa. Entro e mi presento subito come una collega: si prendono copia degli
esami ematochimici e dell’ecografia che avevo portato e scorrendo il calendario
mi fissano direttamente l’appuntamento per l'interruzione chirurgica al 10
agosto. Ma devo tornare "dopodomani", per ripetere analisi ed
ecografia e firmare le carte.
A quel punto, chiedo la RU486.
L'infermiera, dopo avermi detto
che in quella struttura ospedaliera solo 3 medici su 31 non sono obiettori, mi
dice che loro lì ne somministrano solo per 7 al mese (è mai possibile?!) e che
per agosto sono già tutte occupate, forse però una ragazza rinuncia: “Torna
dopodomani che ti faccio sapere".
Dopodomani torno e mi dicono
che il posto non s'è liberato, però c'è una possibilità: il Dottor B.
All'Ospedale di ,,,,,,,. . A
130 km dalla mia città.
Sono sempre più stupefatta.
Su tutto il territorio di
questa immensa area metropolitana, non c'è un ospedale in grado di fornire
questo servizio, sancito per legge!!!
Devo andare a ……..!!
Sempre perché dotata di quella
posizione di vantaggio di cui sopra (che in questo caso significa anche avere
una macchina e un'amica con una casa a 90 km dall'ospedale, disposta ad
ospitarmi per un paio di notti), telefono a quest’ultimo Ospedale dove, senza
bisogno di presentarmi come medico, mi danno un appuntamento rapidissimo quella
stessa settimana, e dove mi sono trovata benissimo, sia sotto il profilo
professionale che sotto quello umano.
Questa mia
esperienza mi fa ragionare su diversi aspetti, sia medici che sociali, o
sociologici se preferisci. Riflessioni dolorose, in ogni caso. Ho l'impressione
che si stia tornando indietro di anni su questi argomenti di civiltà, su questi
ormai (speravo) assodati diritti umani. Di educazione sessuale nelle scuole
nemmeno l'ombra, i consultori sono usati per nemmeno un terzo delle loro
potenzialità, il bigottismo da un lato e la medicina difensiva dall'altra ci
mettono davanti una situazione dove siamo sempre più lontani da quello medicina
sociale che deve continuare a marciare, a mio parere, sotto l'egida della
laicità, e del diritto alla salute, a favore del malato e al fianco dei
colleghi, non contro o difendendosi da queste figure, una volta amiche ora solo
degne di sospetto.
Ricevo e volentieri pubblico.
L'affossamento della 194 ha molti volti.
Emma è una mia amica, mi ha scritto poche ore fa e dato il consenso alla pubblicazione del suo percorso. Spero serva a ccomprendere quanto la 194 è sempre più fragile.
Ricevo e volentieri pubblico.
L'affossamento della 194 ha molti volti.
Emma è una mia amica, mi ha scritto poche ore fa e dato il consenso alla pubblicazione del suo percorso. Spero serva a ccomprendere quanto la 194 è sempre più fragile.